MAGMA, 2023, exhibition text by Cecilia Canziani (Italiano)

Magma

Cecilia Canziani

Dipinta nel 1529 per Guglielmo IV di Baviera, quando il pittore, ormai famoso e maturo, aveva diradato la sua attività di artista per dedicarsi a ricoprire incarichi politici, la Battaglia di Alessandro e Dario a Isso è il quadro più celebre di Albrecht Altdorfer. Il paesaggio nel quale la vicenda viene immaginata domina la rappresentazione: le vicende storiche narrate occupano la parte inferiore della grande tavola, mentre la natura sembra combattere una lotta che si svolge su un piano diverso. La veduta a volo d’uccello imprime nella scena rappresentata un moto circolare che i diversi elementi – le foreste, le montagne, il mare, le nubi, il cielo e il sole – rilanciano ad infinitum. La storia si svolge su un piano di forze e di tempi che sono diversi da quelli geologici della natura, eppure i due piani comunicano e l’uno è specchio dell’altro.

(8121) Altdorfer riporta in scala una porzione di paesaggio (e se Benedikt Hipp sta citando questo, o un altro dipinto del maestro tedesco non è forse così importante) ne isola un particolare come fosse visto da una finestra, a sua volta inquadrata da una strana forma che da pietra diventa carne – un dito con l’unghia laccata di blu. La superficie del quadro è tagliata a circa un terzo dalla base da una linea orizzontale, al di sopra di questa linea, su un fondo azzurro, è disegnato un arco al cui interno appare un cielo carico di nuvole che sovrasta una foresta di conifere. Al di sotto, una superficie arancio – che è terra e fuoco – è il piano sul quale poggia la figura antropomorfa, che forse – azzardo – rappresenta Hipp. Il titolo, come è sua consuetudine, è una proposta di lettura, un’indicazione, e in questo caso indirizza non a un generico paesaggio, ma a un autore che lo ha interpretato in una maniera specifica: come piano ideale, luogo fantastico dove mettere in scena il reale.

Il piccolo quadro su tavola sembra in effetti offrire una chiave interpretativa abbastanza precisa della mostra: è una finestra attraverso la quale leggere le opere che compongono Magma, sviluppo ulteriore delle due esposizioni precedentemente inaugurate questo autunno a Basilea e a Monaco, e che insieme a quella odierna di Roma compongono un racconto in tre atti.

Il paesaggio, quindi, come elemento centrale delle tre mostre; un paesaggio però che è un campo di forze, vivo, mutabile e plasmato da energie naturali come dalle azioni dell’umanità (certamente non surreale, per ripulire immediatamente il campo da riferimenti che Hipp trova da sempre impropri), che riorganizza il tempo dell’uomo e quello geologico trovando tra questi due termini un punto di equilibrio.

I titoli dei dipinti – come quelli delle mostre stesse – appartenenti a questo ciclo di opere alludono spesso in maniera diretta alla nascita e trasformazione delle terre: Diapiro; Nascita di un’isola; Hotspot; Compound evocano il fenomeno per cui cui lava, salgemma, gesso e argilla premono dal sottosuolo creando intrusioni di masse litoidi nelle formazioni rocciose sovrastanti. Spesso i dipinti, sempre verticali, sono costruiti attraverso il contrasto tra una conformazione organizzata, geometrica, nella metà inferiore e una massa di forme organiche che sembra emergere dal sottosuolo e che si compone per somiglianza e aggregazione spontanea. In termini pittorici: una griglia modernista versus una forma-colore. A volte queste composizioni possono diventare nature morte – oggetti su un piano – come in Ossidiana o poT of the World (un quadro decisamente Morandiano) ma pietrificate, rocciose. In altri casi la composizione si lascia leggere come ritratto – figura su sfondo – e la mineralizzazione sembra investire il corpo come in Olympo e Acquarius.

Le velature, attraverso le quale Hipp costruisce per trasparenze la forma, lasciano spazio all’uso di un olio magro, gessoso, e i colori caratteristici del pittore – i blu, i verdi, gli azzurri e gli arancioni – alle terre e ai grigi. Per raccontare il processo di autopoiesi del mondo, occorre mutuarne la materia.

Anche le sculture – lingue, teste, arti che fanno a meno di un corpo perché hanno una propria autonomia – si fanno leggere tanto come figure, quanto come paesaggi: AEON 5FGR è una concrezione corallina, che si sviluppa verso l’alto, ma allo stesso tempo – basta cambiare punto di vista – è una mano, o la punta di un piede. AEON QFbl5 somiglia per colore, forma e consistenza a un blocco di basalto, che però su un lato termina in dita, o tentacoli. AEON ZuNO è una lingua, eppure è anche una montagna che si produce attraverso una piega, un diapirismo per l’appunto. Vale la pena ricordare che Benedikt Hipp cuoce le proprie sculture in una fornace che ha costruito lui stesso nel suo giardino. Che la cottura dura diversi giorni. Che il fuoco va vegliato. Che la forma può essere abbozzata dall’artista, ma viene determinata dalla temperatura compresa tra i mille e i milletrecento – la stessa del magma. Che infine il colore è dovuto alla risalita in superficie dei metalli presenti nell’argilla scelta per plasmare le forme e della reazione con il legno che viene impiegato per il fuoco. La ceramica che è – più di ogni altra cosa – una cartografia (letteralmente, un paesaggio), ma anche il ripetersi di un rito che tramanda e istituzionalizza il mito della creazione.

Magma ci offre l’immagine di un mondo in trasformazione in cui nuovi organismi e sistemi nascono alla vita e creano relazioni di reciprocità le une con le altre. Un ecosistema, in cui tutto si tiene in equilibrio perché l’energia è un’onda che passa da un elemento all’altro: così nelle opere la materia fluida costruisce un paesaggio delle origini, una natura selvaggia, una rovina, la storia dell’arte (Morandi, Giacometti, Guston sembrano direttamente chiamati in causa), e sculture e dipinti sembrano uno il modello (o l’archivio) dell’altro – una aggregazione molecolare che si fa e si disfa, e dove la presenza umana è una cosa tra le cose.

Visti uno accanto all’altro, (8121) Altdorfer e AEON ZuNO sembrano corrispondersi e convocare nel contesto della mostra un altro paesaggio non pronunciato ma certo ben presente all’artista: il Monte Verità, dove all’inizio del Novecento artisti e filosofi sperimentano un altro modo di vivere. Nel tempo (significativo e intenso) trascorso all’Accademia Tedesca di Villa Massimo Benedikt Hipp ha dipinto nello studio, ma ha anche fatto parte di una comunità e contribuito a creare un orto secondo i principi della permacultura, proprio come quello che nella sua casa in Baviera, non lontano da Monaco, si trova a fianco della fornace, che a sua volta è un luogo attorno al quale una comunità si ritrova quando essa è in funzione.

Una mostra, sembra dirci insomma l’artista, è un mondo, dove nascono altri mondi – è inseparabile dal contesto sociale e politico nel quale viviamo e che possiamo contribuire a plasmare, perché fare un quadro o modellare nel cavo della mano una pallina d’argilla, è rifare l’universo.